Capita spesso di sentire, in maniera nemmeno troppo celata, frasi del tipo: “a me il kata non è mai piaciuto! L?ho fatto, ma lo trovo noioso e inutile: il judo è fatto di combattimento!”. Poi c’è chi,, al contrario, si dedica strenuamente soltanto al miglioramento del kata, magari anche di un singolo kata, frequentemente per propositi competitivi, da quando si è scelto di incrementare i praticanti di kata proponendo tale studio in una versione, per così dire, da gara, con giurie a giudicare ogni minimo dettaglio.
Personalmente mi è sempre stato trasmesso il concetto di unione e completamento tra kata e randori, due elementi che aiutano, praticati alternativamente, a comprendere movimenti, ritmo, tempistica, squilibri ed opportunità del judo. Così li aveva pensati Jigoro Kano, perlomeno.
Ho iniziato a praticare rudimentalmente il kata all’età di circa 14 anni: sono partita, come capita a molte persone, con il nage – no – kata, ovverosia la forma di attacchi e difese di tecniche di lancio, eseguite dunque in piedi. Anni dopo ho avuto modo di studiare anche il katame – no – kata (forme delle immobilizzazioni, degli strangolamenti e delle leve e relativi tentativi di liberazione a terra), il kodokan -goshin – jutsu (le forme della difesa personale, ereditate dal più complesso koshiki – no – kata) e il ju – no -kata (forme della cedevolezza, in cui vengono simulate le difese che porterebbero l’avversario alla resa se tirate fino in fondo).
Il kata racchiude in sé tutti gli elementi formali che sono necessari a comprendere e a reiterare, alla ricerca della perfezione, i giusti squilibri, i momenti tempestivamente migliori, le opportunità da cogliere quando poi nel randori (esercizio libero), ci si trovi ad esprimere la propria singolarità e ad applicare le conoscenze acquisite adattandole alle proprie caratteristiche, fisiche e mentali.
Certo, tali concetti possono sembrare a dir poco ostici per dei ragazzi! Capita che in un dojo qualunque un giovane (in accezione ampia, dal bambino/a al ventenne che ancora può nutrire velleità agonistiche) si iscriva e, dimostrando di avere le giuste doti, venga instradato a competere. Fin qui tutto giusto, credo fortemente nello sport come forma di sfogo e acquisizione di consapevolezza e autostima. Ciò che credo sbagliato è tralasciare volutamente e a tempo indefinito un minimo approccio alla forma: praticare il kata ha il pregio di insegnare a camminare correttamente, spostandosi in varie direzioni, comprendendo appieno reazioni e difese che il randori consente di comprendere intuitivamente, ma che, a volte, rimangono inespresse, perché ci si fissa su un limitato numero di azioni/reazioni, senza dare all’allievo la possibilità e le potenzialità per esprimersi appieno. Il judo racchiude un mondo, in cui ciascuno può aver modo di trovare come esprimere la propria personalità al meglio.
Capita di sentire espressioni ormai consolidate, per far sì che vengano compresi certi concetti, quali “fate randori al 50%” oppure “non fate shiai, è un randori!”. Ma che cosa significano davvero?!
Shiai indica il combattimento vero e proprio, quello che in gara ci porta a vincere o a perdere. Ciò che è arduo far comprendere ai praticanti di judo e, ancor più complicato, dimostrare da sé con la pratica e l’esempio, è che il randori ha lo scopo primario di fare ippon. Che differenza c’è con lo shiai, mi chiederete allora. La differenza è sottile: nel randori non miro solamente ad eseguire una tecnica perfetta per realizzare io stessa un ippon, ma accetto altresì che il mio avversario possa cogliermi in fallo, anche cento volte, e mi faccia cadere, accettando di non parare o schivare la caduta a tutti i costi, come quasi sempre avviene nello shiai. Per riuscire a fare un buon randori, che non presupponga condiscendenza nel lasciarsi proiettare, ma nemmeno opposizione completa, ci vogliono umiltà, pazienza e perseveranza. Trovo il randori, quello vero, molto più complicato del kata, in fondo, dove attacchi e difese vengono eseguiti sotto forma di convenzione, sempre uguale a se stessa.
Certo, si tratta della lotta tra forme di judo in ogni caso complesse! E’ impossibile fare una graduatoria di che cosa sia più complicato, ma si può farne una di ciò che risulta a noi più congeniale.
Scorrendo gli scritti del Maestro Kano, tratti dai “Quaderni del Bu- Sen” del Maestro Cesare Barioli, mi hanno colpito due passaggi:
“Il motivo della mia esortazione è di segnalare la necessità di interazione tra questi due elementi così diversi tra loro, per ottenere un risultato soddisfacente”
“Il valore del randori risiede nel fatto che conferisce prontezza e agilità nell’adattarsi alle situazioni, poiché il suo esercizio risiede soprattutto nell’interagire con l’azione avversaria e per fronteggiare questi frangenti, occorre applicarsi mentalmente e fisicamente, opportunità offerta soltanto dal randori”
Un consiglio? Praticate i vari tipi di kata e non lamentatevi se vi dicono di ripeterli più volte: l’obiettivo dovrebbe essere di far chiarezza su ogni punto e quando vedrete che i Maestri iniziano a tormentarvi su determinati punti, siatene felici: significa che state migliorando! Praticate il randori con la mente sgombra, il fisico reattivo e la voglia di divertirvi: lasciate spazio alla fantasia e all’immaginazione, il judo andrebbe fatto con gioia! Non prendetevela troppo se, nello shiai, non vi scoprite dei campioni! Provate e riprovate: a volte paga di più la perseveranza che il talento puro, se non accompagnato da determinazione.
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